Il “Fatto Quotidiano” ha recentemente pubblicato un articolo di Massimo Novelli nel quale, partendo dall’ultimo libro di Giancarlo Bocchi, si sostiene la tesi secondo la quale Guido Picelli in Spagna sarebbe caduto sotto i colpi di un complotto ordito da volontari comunisti.
Il titolo dell’articolo (ma sappiamo che i titoli sono in genere opera delle redazioni) non lascia spazio al dubbio: il “comunista eretico” fu “ucciso dai sicari di Stalin”. Nell’articolo Novelli è un po’ più prudente e parla di una “possibile verità, peraltro assai verosimile”. Ma come sappiamo il “verosimile” non corrisponde necessariamente al “vero”.
Si tratta di una tesi che Bocchi, documentarista più che storico, sostiene da circa quindici anni con libri, articoli e interviste, senza essere arrivato finora a fornire prove convincenti a suo sostegno. In mancanza di un reale fondamento ha dovuto ricorrere ad una selezione arbitraria delle testimonianze e dei documenti, sottacendo tutto ciò che contrasta con la sua “teoria del complotto” comunista. Fornendo nel tempo anche ricostruzioni parziali e contraddittorie ed evitando di rispondere puntualmente alle obiezioni di merito che il sottoscritto come altri hanno avuto modo di avanzargli (identificando ogni osservazione critica con l’azione di una tenebrosa spectre stalinista che opererebbe ai suoi danni).
Massimo Novelli molto probabilmente non ha avuto modo di leggere le pagine che gli storici di professione nel corso degli anni hanno dedicato alla biografia del protagonista delle Barricate di Parma del ’22 (Gagliani, Sicuri, Gambetta, Dundovich, Puppini). Né certamente si è assunto la fatica di esaminare il materiale, molto del quale inedito, che ho avuto modo di pubblicare nel mio volume “Indagine su Picelli. Fatti, documenti, testimonianze”. In mancanza di meglio riprende alcune delle “prove” fornite da Bocchi a sostegno della sua teoria.
Siccome è giusto che il confronto entri nel merito delle questioni anziché fermarsi agli interrogativi generici provo ad interloquire con alcune di queste “prove” che Novelli cerca di avallare nel suo articolo.
Picelli fu colpito da una pallottola alla schiena.
Il fatto che Picelli sia stato colpito alla schiena è in genere portata come la prova incontestabile che deve essere stato ucciso da qualcuno che si trovava alle sue spalle, quindi da un volontario antifascista che lo seguiva. Va detto che non abbiamo alcuna certezza su questa informazione. Nessuno dei sei volontari che hanno dichiarato nel tempo di aver assistito alla sua morte ne parla. Randolfo Pacciardi nel suo libro sul Battaglione Garibaldi, scritto nel 1938, riferisce che appena colpito, Picelli si portò “le mani alla ferita”, il che sembra poco compatibile con un colpo alla schiena e al cuore.
Nelle tre testimonianze rese nel corso del tempo, Pacciardi, notorio e dichiarato anticomunista, ha sempre respinto la tesi dell’assassinio per “mano amica”. Pacciardi, che parlò con Picelli pochi minuti prima della sua morte, ha anche ricordato in due occasioni che l’eventuale colpo alla schiena (e il repubblicano scrisse nel ’53 che, in proposito “si è sparsa più tardi la voce”) era del tutto compatibile con la disposizione delle forze sul campo, in quanto il luogo in cui si trovava Picelli al momento della morte era al fianco o addirittura più avanzato delle postazioni franchiste verso le quali si stavano dirigendo i combattenti del battaglione polacco.
A testimoniare del colpo alla schiena (del tutto compatibile e possibile con uno o più tiri da parte franchista) abbiamo sostanzialmente il diario di Giorgio Braccialarghe, che venne inviato a recuperare il cadavere la mattina successiva. Ma Braccialarghe, in passaggio che, comprensibilmente, non è mai citato dai teorici del complotto, scrive anche: “più tardi ho chiesto a doversi garibaldini come è morto; tutti mi hanno confermato che è stato colpito nel momento in cui, voltatosi per incitare le Compagnie a seguirlo, offriva le spalle al nemico”.
Picelli “aveva forti legami con trotskisti del POUM”.
Non è del tutto chiaro dall’articolo di Novelli se il destino di Picelli fosse “già deciso in terra russa” oppure per i legami con il POUM (impropriamente definito come “trotskista”) intercorsi quando l’ex deputato comunista aveva già lasciato Mosca. In ogni caso, scrive, “aveva legami forti” con i “trotskisti del POUM” che “sarebbero stati massacrati qualche mese dopo a Barcellona”. Su questa ricostruzione si possono avanzare diversi dubbi basandosi sulla documentazione disponibile negli archivi sovietici (e che ho pubblicato integralmente nel mio libro, ma che in parte era già nota da un saggio della Dundovich).
Picelli a Mosca aveva espresso la volontà di recarsi in Spagna per combattere militarmente il fascismo. Si era rivolto per questo non solo alla dirigenza del PCI ma anche a Manuilskj, uomo di Stalin nel Comintern, che lo aiuta ad ottenere l’autorizzazione dell’NKVD per lasciare l’Unione Sovietica.
Quando Picelli arriva a Parigi a metà ottobre del 1936 con la precisa volontà di recarsi in Spagna a combattere il fascismo entra in conflitto con il centro estero del PCI che lo invita alla prudenza in attesa dell’autorizzazione del Governo spagnolo a dar vita alle Brigate Internazionali. Uomo impaziente e coraggioso, Picelli non accetta questa sollecitazione ed entra in contatto con i socialisti massimalisti e, attraverso questi, con il POUM. Ai primi di novembre incontra a Parigi Julian Gorkin che gli promette di attribuirgli il grado di capitano nelle milizie poumiste che combattono a Huesca. Quando Picelli arriva a Barcellona (probabilmente l’8 novembre) trova posto nella Caserma Lenin. A Barcellona incontra alcuni militanti comunisti che lo convincono a recarsi immediatamente ad Albacete, in treno, per mettersi a disposizione delle Brigate Internazionali. Nella base delle Brigate, Picelli è sicuramente presente alcuni giorni prima del 16 novembre.
Questa è la parte ben documentata alla quale si può provare ad aggiungere una ipotesi sulle ragioni del comportamento di Picelli. A Mosca aveva dichiarato di voler andare in Spagna per difendere la Repubblica e il fronte popolare e a Parigi aveva espresso la volontà di entrare in combattimento portando le sue idee ed esperienze. Si era probabilmente illuso che il POUM potesse offrigli una maggiore possibilità di iniziativa di quanto fosse disposto ad attribuirgli il PCI, vincolato da una serie di accordi con il Governo spagnolo e con gli altri partiti antifascisti. Ma quando arriva a Barcellona deve verificare che da un lato il ruolo militare del POUM a Huesca, in quella fase, era molto limitato e dall’altra le Brigate Internazionali entravano in combattimento dando vita all’epopea della difesa di Madrid che emozionava e coinvolgeva tutto l’antifascismo europeo. Picelli lasciando la città catalana riprende anche il suo posto di militante del Partito Comunista come è confermato anche dall’articolo pubblicato a metà dicembre da “Il Grido del Popolo” il settimanale ufficiale del PCI pubblicato a Parigi e confermato dal necrologio che gli dedicherà “l’Avanti!” massimalista a metà gennaio del ‘37.
Il collegamento tra la morte di Picelli e gli eventi di Barcellona del maggio successivo, effettuato da Novelli, appare del tutto arbitrario. I garibaldini italiani non furono coinvolti in quel conflitto che vedeva da un lato i settori più radicali del movimento anarchico col sostegno, soprattutto politico, dei poumisti e dall’altro repubblicani, indipendentisti catalani, comunisti e socialisti del PSUC. Novelli ripete una leggenda sui poumisti “massacrati” a Barcellona che le ricostruzioni storiche attendibili hanno nettamente ridimensionato. Il POUM ebbe quattro morti in quei giorni, persino meno di quanti ne ebbe il PSUC (i caduti comunisti furono 18). La repressione nei confronti dei dirigenti e militanti poumisti ci fu (noto è il caso di Andreu Nin), anche sostenuta da argomentazioni sicuramente false sui contatti con i franchisti e con l’azione illegale del gruppo di agenti sovietici guidato da Orlov, ma avvenne dopo gli scontri di maggio.
Il cecchino franchista non fu premiato
Novelli aderisce acriticamente alla tesi secondo la quale una prova del complotto sarebbe il fatto che “non fu conferito alcun premio, onorificenza, avanzamento di grado, noti di merito” al militare franchista che ha colpito Picelli. Questa supposizione solleva una serie di domande come tutte quelle che non cercano di accertare i fatti realmente avvenuti ma costruiscono castelli a partire da eventi immaginari. E’ stato verificato dagli archivi militari franchisti chi era presente nello scontro di San Sebastian? E partendo da ciò si è accertato che effettivamente nessuno di coloro che hanno partecipato a quella battaglia abbia avuto onorificenze, avanzamenti o note di merito? Bocchi non porta alcun dato verificabile che sostenga la sua supposizione.
Inoltre dobbiamo chiederci se i franchisti avessero saputo esattamente dove e quando morì Picelli, condizione indispensabile per identificare, ed eventualmente premiare, chi lo aveva ucciso. Quello che sappiamo con certezza è che la stampa franchista apprende della morte di Picelli dalle radio repubblicane che lo commemorano, alcuni giorni dopo la sua morte. Ad esempio il giornale “Imperio” scrive l’11 gennaio: “la radio di Valencia (ndr dove aveva sede il governo repubblicano) si è dedicata stanotte a versare parole lacrimose di elogio e sospiri dolorosi di disperazione di fronte alla morte di un capobanda della colonna Internazionale, un italiano chiamato Siro (sic) Picelli caduto ieri l’altro sul fronte di Madrid”. Il comunicato ufficiale di Di Vittorio ripreso dalla stampa antifascista non indica esattamente né dove, né quando Picelli cadde. Venne indicato genericamente il fronte di Siguenza.
Questi interrogativi, che qualsiasi lettore minimamente critico dovrebbe porsi, tanto più un recensore, non sfiorano la mente del Novelli che probabilmente ha deciso di prendere per buone le tesi di Bocchi “a prescindere”.
Picelli muore mentre “non infuriava la battaglia”
Un’altra tesi che Novelli riprende è che, contrariamente a quanto riportato da numerose testimonianze, Picelli sarebbe caduto in un momento nel quale la postazione conquistata dai garibaldini non era sotto il tiro nemico. In questo caso si tratterebbe di un ben strano sicario quello che decide di commettere il proprio crimine quando nessun altro sta sparando e quindi può essere facilmente individuato come responsabile dell’accaduto. Resterebbe poi da spiegare chi ha ferito Albino Marvin, subentrato a Picelli alla guida delle due compagnie impegnate su El Matoral, con una fucilata alla gamba, poco dopo la morte del capitano del Garibaldi. Le diverse testimonianze indicano da mezz’ora a un’ora di distanza tra i due eventi.
Picelli e le testimonianze di Braccialarghe.
Un altro elemento topico dei teorici del complotto è una citazione dal “Diario spagnolo” di Giorgio Braccialarghe normalmente estrapolata dal contesto. Braccialarghe era al tempo un giovane anarchico diventato poi dirigente repubblicano vicino a Pacciardi e certamente nelle sue memorie non mancano spunti polemici nei confronti dei comunisti. Novelli riporta quanto segue: “per il mio Partito (ndr: ed evidentemente Picelli intendeva il PCI di cui si riteneva a tutti gli effetti militante, non il POUM) è meglio un eroe morto che un recalcitrante vivo” (pagina 141).
Questa citazione è però parziale e, almeno in parte, ingannatoria. In un passaggio precedente del suo libro Braccialarghe riferisce che Picelli gli avrebbe detto: “Secondo le sue parole è stato mandato in Spagna perché il suo partito ha più bisogno di un eroe morto che di un recalcitrante vivo”(pagina 111). La frase così formulata lascia perplessi perché sappiamo da tutta la documentazione disponibile che Picelli fece di tutto per andare in Spagna al punto da aggirare le incertezze dei dirigenti del PCI a Mosca rivolgendosi direttamente al sovietico Manuilskj.
Intervenendo a Parma nel gennaio 1987 ad una iniziativa di commemorazione di Picelli, rispondendo ad un altro sostenitore della tesi dell’assassinio di Picelli per mano comunista, dichiarò pubblicamente e solennemente che il “Garibaldi” era una “formazione di puri combattenti in cui non ci furono né ci potevano essere sicari e assassini, bensì il fior fiore dell’antifascismo italiano in cerca della redenzione del nostro popolo”.
La mancata assegnazione dell’Ordine di Lenin
Un altro argomento che Novelli, sulle tracce di Bocchi, porta a sostegno della tesi dell’assassinio da parte dei “sicari di Stalin” fa riferimento alla mancata assegnazione dell’Ordine di Lenin. Scrive il recensore del Fatto Quotidiano: “a Picelli fu negata la più alta onorificenza sovietica, l’Ordine di Lenin, che alcuni comandanti delle brigate antifasciste in Spagna avevano proposto di assegnarli”. Anche questo è un dettaglio che merita di essere approfondito sulla base dei documenti e delle informazioni di cui disponiamo.
Chi sono questi “comandanti delle brigate antifasciste” che propongono l’Ordine di Lenin per Picelli all’inizio del 1938 (quando a Mosca infuria il Terrore, dettaglio che bisogna tenere a mente)? Si tratta di Efim Trotsenko, comandante sovietico che farà una brillante carriera militare durante tutto il periodo staliniano e anche successivamente, e il “comandante Gomez”. Quest’ultimo era in realtà il tedesco Whilelm Zeisser, già collaboratore dei servizi segreti militari sovietici in Cina prima di andare in Spagna e, dopo la fine della seconda guerra mondiale, primo ministro dell’interno della Germania orientale costituita nella zona di occupazione sovietica. In tale veste Zeisser, alias Gomez, fu il fondatore effettivo della Stasi. Si può pensare che Trotsenko e Zeisser, certamente non degli sprovveduti, potessero rischiare l’osso del collo, in pieno Terrore staliniano, per raccomandare un “eretico” considerato a Mosca un “trotskista”?
In ogni caso i due segnalarono anche l’opportunità di chiedere “maggiori informazioni” a Gallo (ovvero Luigi Longo) su quanto era accaduto a Barcellona. Sarà poi Roasio, sulla base delle informazioni fornitegli da Giuseppe Dozza, futuro sindaco di Bologna nel dopoguerra, a stilare un resoconto dei contatti di Picelli col POUM nella capitale catalana. Nel resoconto redatto in italiano e in russo e datato 21 giugno 1938 si tende a relativizzare la “stupidaggine” di Picelli e si richiama una sua lettera al comitato centrale del PCI nella quale spiegava tutti i fatti e faceva autocritica.
I documenti sovietici del periodo riconducibili a questa sorta di inchiesta sul comportamento di Picelli riprendono le notizie sul suo breve avvicinamento al POUM a Barcellona ma non fanno alcun riferimento a comportamenti sospetti o a un presunto dissenso esternato a Mosca. Alla fine, il 20 aprile del 1939, l’ufficio quadri del Comintern, a cui spettava il compito di verificare l’ortodossia dei quadri comunisti sia da vivi che da morti, conferma la richiesta di assegnazione dell’Ordine di Lenin a Picelli, “caduto eroicamente nei ranghi della milizia spagnola”. Anzi la ritiene “necessaria”, per la “sua partecipazione fondamentale nelle lotte contro il fascismo spagnolo e gli interventisti fascisti”.
Non risulta che questa onorificenza sia stata attribuita all’ex deputato comunista parmigiano. Non abbiamo documenti che ne spieghino le ragioni e quindi dobbiamo avanzare una ipotesi che ci sembra ragionevole. Non molto tempo dopo l’atto ufficiale dell’ufficio quadri del Comintern, avviene la sottoscrizione del Patto Molotov-Ribbentrop. Da quel momento la svolta diplomatica di Stalin porta a mettere la sordina sugli eventi spagnoli e su coloro che avevano combattuto non solo contro i franchisti ma anche contro le truppe tedesche e italiane che si trovavano al loro fianco. Resta comunque il dato inequivocabile che il Comintern, nel suo ufficio sicuramente più sospettoso, riconobbe in Picelli un comunista e un antifascista caduto in combattimento di fronte al nemico.
“Sicari” o “antifascisti”?
Novelli parla in modo generico di sicari presenti, secondo lui, nelle file dei volontari garibaldini in Spagna. Bocchi ha in realtà avanzato accuse più precise, individuando in Alcide Leonardi colui che avrebbe assassinato Picelli a freddo colpendolo alla schiena. Questa accusa infamante ha come unica prova a carico una presunta “gita premio” a Mosca di cui avrebbe goduto in cambio del suo delitto. In realtà Leonardi, che sarà poi un coraggioso comandante partigiano in Emilia-Romagna durante la Resistenza al nazi-fascismo, qualche giorno dopo la morte di Picelli venne nominato commissario politico della prima compagnia, a seguito del ferimento di Anacleto Boccalatte. Continuerà a combattere fino alla metà di marzo, rimanendo ferito a Guadalajara. Solo allora lascerà il Battaglione e, dopo essere stato curato, rientrerà in Francia. Verso la fine dell’estate il centro estero del PCI deciderà di inviarlo a Mosca per un breve corso politico ma già nel gennaio del 1938 riprenderà il suo ruolo di corriere clandestino verso l’Italia, per portare ai nuclei comunisti i flani dell’Unità e altro materiale politico. Indubbiamente una singolare forma di “gita premio”.
Picelli “eretico”?
Richiederebbe un più ampio esame la definizione di Picelli come “eretico”. Sicuramente in tutta la sua biografia e anche nel suo comportamento a Mosca e poi in Francia e in Spagna si dimostrò un carattere indipendente portato a fare scelte coraggiose e a volte impulsive. Il suo desiderio ardente di tornare a combattere il fascismo prevalse su considerazioni ideologiche che spesso gli risultarono estranee da uomo d’istinto e d’azione. Come scrisse dalla Spagna, l’11 dicembre 1936, nell’ultima lettera alla moglie: “io sto benissimo. I compagni coloro con i quali rivivo la lotta, mi vogliono bene. Vogliono bene a questo vecchio soldato che ha sì i suoi difetti, magari, ma che riconoscente, li ricambia dello stesso bene, ed è con essi”.
La definizione di “eretico” è sufficientemente vasta da poter includere interpretazioni diverse, ma anche in questo caso per sostenerla si ignora completamente ciò che Picelli ha scritto di suo pugno in questi anni, attribuendogli idee e visioni che contrastano con le sue parole e anche con le sue azioni. Viene presentato un Picelli largamente immaginario, figura di comodo per sostenere qualche modesta polemica politica.
Detto questo, la discussione sulla morte di Picelli, nata innanzitutto in ambienti anticomunisti e poi ripresa in modo carsico nel corso dei decenni, probabilmente non avrà mai fine. Ma in questo non vi è nulla di particolarmente scandaloso. Sarebbe però utile che essa si sviluppasse confrontando i documenti nella loro integralità, analizzando criticamente le testimonianze e cercando di inserire le vicende umane e politiche nel contesto in cui avvenivano.
Novelli, ripetendo le parole di Bocchi, ritiene che gli antifascisti che andarono in Spagna, almeno quelli comunisti, diversi dei quali vi lasciarono la vita e molti dei quali saranno poi in prima fila nella lotta partigiana in Italia, fossero espressione di una “sinistra, pavida, dogmatica, opportunista e totalitaria” e quindi naturali assassini o complici dell’eliminazione di Guido Picelli. Noi, francamente, non lo crediamo.